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Afghanistan: “nuovo modello di guerra” per l’offensiva Nato nella provincia di Helmand

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L’offensiva militare delle truppe Nato prosegue nell’Helmand, provincia meridionale dell’Afghanistan confinante con il Pakistan, considerata una roccaforte talebana. L’operazione, denominata Moshtarak – “insieme” in lingua dari – è concentrata nel distretto di Marja ed è volta, a detta dei vertici Nato, a “permettere al governo afghano di affermare la propria autorità sul territorio ed impedire che Helmand diventi un paradiso per gli insorti”. L’offensiva, a guida anglo-americana, costituisce una nuova fase del disegno statunitense di coinvolgere il limitrofo Pakistan nel tentativo di impedire il ritorno dei Talebani. Questi ultimi, per la verità, hanno risposto picche alle reiterate proposte del presidente Karzai di entrare a far parte di un governo di coalizione, ritenendo altresì impraticabile il cammino per la soluzione della crisi tracciato nella Conferenza di Londra, ovvero lo stanziamento di 500 milioni di dollari da offrire all’opposizione afghana, una sorta di “contentino” per spingere i ribelli a trattare.

L’operazione, sebbene sia sostenuta dai reparti Usa e britannici dell’Isaf, coinvolge le truppe di Kabul e impiega 15 mila uomini (dei quali 3500 marines, 2000 soldati britannici, 1500 afghani, dotati di 500 IAV Stryker, più 7500 militari coinvolti in manovre di sostegno e logistica) con il dichiarato intento di fare “pulizia” dei bastioni talebani al confine col Pakistan.

L’intervento era stato preceduto dall’invito, rivolto agli oltre 100 mila abitanti del luogo, a rifiutarsi di dare rifugio ai talebani. La nuova offensiva, tuttavia, segna l’avvento di un “nuovo modello di guerra” – come riferisce il New York Times – basato non soltanto sulla conquista del territorio, ma con lo scopo prioritario di ottenere il sostegno della popolazione locale e conseguentemente insediare un’amministrazione afghana stabile.

I marines sono sbarcati nella zona limitrofa alla cittadina di Marja, supportati dall’avanzata dei reggimenti britannici, i quali hanno attaccato la zona settentrionale del circostante distretto di Nad Alì. Gli analisti valutano le battaglie nell’Helmand come le più decisive per gli sviluppi del conflitto, oltreché le più grandi dall’inizio delle attività belliche. Il tutto prevede, nelle intenzioni dei vertici del Pentagono, la disfatta della resistenza talebana e l’ottenimento di una evidente vittoria militare tale da indurre gli insorti a deporre le armi e accettare il dialogo con il governo.

Nonostante i comandanti dell’Isaf confermino la “grande riuscita”, l’attacco ha trovato una ferrea opposizione talebana che ha provocato la perdita di un numero imprecisato – nell’ordine della decina – di militari Nato.

I generali atlantisti hanno afferrato la complessità delle operazioni in una zona geograficamente impervia, la cui popolazione è sempre più riluttante all’idea di doversi sottomettere agli invasori, ancorché sarebbe opportuno – nell’ottica Nato – sottrarre ai talebani l’appoggio tacito degli autoctoni locali. “La popolazione non è il nostro nemico, è il nostro premio”, sintetizza il generale Larry Nicholson, comandante dei marines americani nell’Afghanistan meridionale.

A suggellare la nuova strategia americana sono pronti, nelle retrovie, numerosi funzionari amministrativi e 1900 poliziotti afghani, preparati ad insediarsi ed assumere in pieno le funzioni una volta cessate le ostilità.

Il fatto che l’offensiva ad ampio raggio stia incontrando parecchie resistenze ha spinto il generale Petraeus, comandante delle forze Usa in Iraq e Afghanistan, a puntualizzare che l’operazione Moshtarak è solo “l’inizio di una campagna che durerà 12-18 mesi”, ribadendo la necessità di ottenere l’appoggio della popolazione per sottrarla al raggio degli insorti e dei signori della guerra locali, se necessario “conquistandoli” col denaro.

In questo quadro si nota come la situazione stia volgendo a sfavore delle forze alleate, considerando l’incremento della ribellione agli attacchi aerei che colpiscono i civili, con il conseguente ecumenico rancore – se non vera e propria ostilità – verso la presenza straniera.

La scelta di inviare in Afghanistan un ulteriore contingente di 40.000 soldati è da inquadrare nella dottrina obamiana, che l’ha fatta propria dal suo mentore Brzezinski, secondo la quale è di vitale importanza effettuare il massimo sforzo bellico nell’Asia Centro-Meridionale piuttosto che nel Vicino Oriente – congelando momentaneamente la questione israelo-palestinese – con l’obiettivo di assicurarsi l’importante corridoio geostrategico nella prospettiva di un accerchiamento della Russia, vero spauracchio di Brzezinski. Se la strategia si dovesse rivelare inefficace sarebbe dunque un grosso smacco per la presidenza Obama che, in politica estera, ha puntato tutte le proprie carte sull’enclave sud-asiatica.

Il complesso scacchiere asiatico è pregno di una composita schiera di “nemici” o potenziali tali, quantomeno nella visione statunitense: vi sono i Pashtun talebani (divisi in fazioni), i “signori della guerra”, come Abdul Rashid Dostum (momentaneamente al soldo della Nato) o Gulbuddin Hekmatyar, i Tagiki, gli Hazara, gli Uzbeki, gli Aimak, i Turkmeni, i Baluci, i clan del Waziristan pakistano, i qaedisti di Bin Laden e via dicendo.

Il punto cruciale, secondo gli analisti atlantici, è l’incapacità degli Alleati di rompere il circolo vizioso tra i talebani, i contadini e le piantagioni di papavero da oppio. Lo stesso distretto di Marja, teatro dell’ultima offensiva su larga scala, è stato a lungo una zona di reclutamento per talebani nonché un’area di coltivazione del papavero da oppio, indi per cui gli strateghi di Washington stanno pensando di controllare le rotte del narcotraffico afghano e colpire i nascondigli dei ribelli al confine col Pakistan.

La politica di Islamabad, alleato di Washington, è alquanto ambigua: nonostante riceva i finanziamenti da oltreoceano per stanare le ridotte talebane, parte dei suoi servizi segreti (ISI) proteggono tacitamente i ribelli afghani, considerandoli una risorsa per contrastare l’influenza dell’arcinemica India in Afghanistan. Peraltro il focolaio al confine pakistano comporta la consequenziale strategia attendista di Islamabad, legata al mantenimento della propria stabilità interna.

* Alessio Stilo si occupa di Asia Centro-Meridionale per il sito di “Eurasia”


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