Meglio conosciuta come Merowe Multi-Purpose Hydro o Hamdab Dam, è la maggiore opera idrica che sia mai stata costruita in Africa. Il progetto risale al XX secolo e fu proposto dalle autorità sudanesi anglo-egiziane che volevano regolare le piene del Nilo, limitando le continue inondazioni. Ma nel 1956 l’Egitto, divenuto una nazione indipendente, decide di costruire la Diga di Assuan (i cui lavori iniziano nel 1959 e si concludono nel 1971), un’opera lunga 3.800 metri, larga 980 metri ed alta 111 che attualmente produce 2 giga watt di corrente elettrica. In concorrenza con Etiopia e Sudan, la Repubblica araba rivendica da sempre un maggiore utilizzo delle acque del Nilo. E in effetti, rispetto agli altri stati ha un consumo più elevato di risorse idriche dovuto sia alla sua numerosa popolazione composta da 56 milioni di persone, sia ad un tasso di sviluppo economico maggiore. Quindi, anche grazie alla sua forza politica e militare, ha potuto siglare accordi molto vantaggiosi come il Nile Waters Agreement (Nwa) che regola la suddivisione delle acque con il Sudan. Firmato nel 1929 al Cairo, attribuisce all’Egitto 48 miliardi di metri cubi l’anno mentre al Sudan spettano 4 miliardi di metri cubi l’anno. Le quote aumentano con l’accordo successivo del 1959, diventando rispettivamente 55,5 miliardi di metri cubi per l’Egitto e 18,5 per il Sudan che nel 1990, sotto il governo di Omar Bashir, riprende il progetto della costruzione di una diga propria necessaria per il rilancio dell’economia, in particolare del settore agricolo. L’ingente afflusso di capitale estero, derivante dalla scoperta e dallo sfruttamento di importanti giacimenti petroliferi ne rende finalmente possibile la realizzazione. Il principale partner commerciale è la Cina. Entra nel business petrolifero sudanese acquisendo nel 1997 la quota di maggioranza del Greater Nile Petroleum Operating Company (Gnpoc), un consorzio che oltre alle concessioni per lo sfruttamento di diversi giacimenti, possiede anche l’oleodotto (costruito in gran parte da società cinesi), con il quale l’oro nero viene trasportato a Port Sudan, sul Mar Rosso, permettendone la vendita. Il principale acquirente è la Cina stessa che importa dal Sudan circa il 65% del greggio; una quantità che permette al Paese asiatico di coprire circa il 7% del fabbisogno interno. Lo stato africano invece, ricava da questa esportazione sia un aumento delle entrate erariali (le rendite petrolifere rappresentano circa il 65% del bilancio nazionale), sia un flusso crescente di capitali esteri. La maggior parte proviene ancora una volta dalla Cina, attratta dalla possibilità di investire oltre che nel settore petrolifero, anche in quello delle telecomunicazioni e delle infrastrutture. La diga di Merowe, di recente apertura, ne è un esempio. Costruita in Sudan settentrionale a 350 chilometri a nord della sua capitale, Khartoum, lungo la quarta cateratta del fiume Nilo, questa struttura raddoppierà la capacità idroelettrica del Paese con la produzione di 1250 megawatt di energia. Infatti, con i suoi 67 metri di altezza e 9 km di lunghezza, crea un bacino artificiale in grado di contenere 12,4 km3 di acqua, cioè circa il 20% del flusso annuale del Nilo. Il progetto ha avuto un costo di circa due milioni di euro. La Exim Bank della Cina ha concesso un prestito di 520 milioni di dollari (da restituire entro vent’anni); i fondi per lo sviluppo di diversi governi arabi, per lo più del Golfo, hanno coperto il resto. Il governo sudanese ha partecipato in minima parte. I lavori sono stati eseguiti da una joint venture (che ha vinto l’appalto da 660 milioni di dollari) composta dalla China International Water and Electric Corporation (Cwe) e dalla China Hydraulic and Hydroelectric Construction Group Corporation (Cwhec). Una società europea, cioè la francese Almsom, ha fornito dieci turbine ed altri strumenti elettro-meccanici. Queste società hanno realizzato la Diga di Merowe nonostante la Valutazione d’Impatto Ambientale (un’analisi effettuata durante le fasi di pianificazione per le costruzioni di dighe), avesse espresso un giudizio negativo sulla fattibilità del progetto; parere confermato anche dallo studio realizzato dallo Swiss Federal Institute of Acquatic Science and Technology. Gli impatti negativi riguardano la progressiva erosione degli argini del fiume; una diminuzione della capacità di produrre energia elettrica dovuta alla sedimentazione; la salute della popolazione messa a rischio a causa dell’inquinamento e della decomposizione di materiale organico; la distruzione di siti archeologici come il centro dell’antica Nubia di epoca egizia e, una volta che la struttura sudanese funzionerà a pieno regime, il Lago Nasser (il bacino artificiale formatosi con la diga di Assuan) si prosciugherà dopo due anni al massimo. Il dato peggiore riguarda l’ulteriore riduzione del flusso del Nilo. Ciononostante, la realizzazione della diga non si è fermata. Sono stati inondati 55 km quadrati di terre irrigate ed 11 km quadrati di terreni agricoli utilizzati per l’agricoltura; circa settantamila persone hanno dovuto abbandonare la loro fonte di reddito, la terra, appunto. E infatti è stato calcolato che in meno di due anni dalla costruzione della diga, il tasso di povertà della città di El Multaga, dove sono stati trasferiti gran parte degli sfollati, è aumentato dal 10 al 65% (tra le principali cause il costo delle pompe per l’irrigazione che prima veniva effettuata con l’acqua del fiume).
La Cina, il cui sviluppo si è perfettamente uniformato ai requisiti della globalizzazione economica, sperimenta un’espansione irrefrenabile. Sfruttando petrolio e materie prime, la sua presenza nel continente nero è molto simile a quella delle potenze occidentali. Tuttavia, la particolarità è che gran parte dei governi africani gradiscono la sua presenza. Il motivo principale è che, oltre all’enorme quantità di investimenti (più di cinque miliardi di dollari) in infrastrutture (strade, ospedali, ponti, stazioni etc), l’unica richiesta avanzata dal Paese asiatico riguarda il reciproco rispetto dei confini territoriali, della non aggressione, della non interferenza negli affari interni dei singoli stati e di non avere rapporti con Taiwan. La partnership è quindi principalmente economica. La tutela dei cittadini e la salvaguardia dei loro diritti, non compete alla Cina. “Business in business”. Un settore come quello tessile nello Zambia, in Africa australe ed in Sudafrica, è stato danneggiato dalla presenza a buon mercato dei prodotti cinesi, liberi di circolare in seguito alla fine dell’accordo multifibre (2005). Ma si tratta solo di un’imperfezione trascurabile in quanto gran parte della crescita economica in Africa è da attribuirsi agli investimenti esteri della Cina che in questo modo è riuscita a “conquistarsi” l’amicizia del continente; del Sudan in particolare, con il quale Pechino è riuscita ad avere anche un’importante relazione politico-diplomatica. Nel febbraio del 2003, infatti, lo scoppio della guerra in Darfur, la regione occidentale del Sudan, viene definita dall’allora Segretario di Stato Colin Powell “un genocidio”. Il governo americano sotto la presidenza di Bush fa pressioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinché si prendano dei provvedimenti di natura economica nei confronti del Sudan, come l’embargo del settore petrolifero e degli armamenti con l’aggiunta di sanzioni pecuniarie. La Cina, che ne è un membro, pone però il veto difendendo così il suo principale fornitore di petrolio in Africa. Una situazione simile si presenta lo scorso marzo: il Tribunale Internazionale dell’Aja emette un mandato destinato al Presidente del Sudan, Omar El Bashir, per crimini contro l’umanità in Darfur. Secondo il parere del governatore della regione, Yusif Kibiri, le ragioni dell’accusa sono infondate. “Conviene trovare una forma di collaborazione con quegli stati che dimostrano disponibilità”, ha dichiarato. La Cina ha dato prova della sua importanza in Africa. Ma il suo peso politico deve misurarsi con altre potenze internazionali, come gli Stati Uniti, interessate allo sfruttamento di materie prime presenti in Sudan e nella regione del Darfur. La partita quindi, è ancora aperta.
* Pamela Chiodi si occupa di Geopolitica delle risorse naturali per il sito di “Eurasia”