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La Comunità Internazionale contro le “strutture parallele” serbe in Kosovo e la miccia bosniaca

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Il no della Serbia al piano per l’integrazione del nord del Kosovo nel resto delle strutture statali kosovare – messo a punto dal governo di Pristina unitamente all’Ufficio del rappresentante internazionale Pieter Feith – é stato ribadito dal Ministro della difesa Dragan Sutanovac.

Qualsiasi strategia che non includa la cooperazione della popolazione non albanese e che imponga in modo forzato una soluzione per le municipalità dove la popolazione serba é in maggioranza non é ben accetta”, ha detto Sutanovac in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al quotidiano belgradese “Blic”.
Denunciando quelle che vengono definite le “strutture parallele” di governo instaurate nel nord del Kosovo dalla popolazione serba, maggioritaria rispetto a quella albanese, i rappresentanti della “comunità internazionale”, d’intesa con le autorità kosovare a Pristina, hanno definito un piano che prevede lo smantellamento di tali strutture e la loro integrazione nel resto degli organismi statali del Kosovo.

I serbi, tuttavia, non accettano tale strategia e si oppongono.

Lo ha fatto lo stesso presidente Boris Tadic nel suo intervento venerdì scorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York.

A suo avviso, tale piano costituisce una “provocazione inutile e pericolosa”, suscettibile di danneggiare la già fragile stabilità del Kosovo. A sottolineare la delicata situazione nella parte nord del Kosovo – dove più massiccia e’ la presenza di popolazione serba – era stato in quella stessa riunione al Consiglio di Sicurezza Lamberto Zannier, capo della missione Onu in Kosovo (Unmik), secondo il quale nel nord del paese balcanico “vi e’ il pericolo serio di destabilizzazione”. In un’intervista nel fine settimana a “Voice of America”, il rappresentante internazionale Pieter Feith ha rassicurato da parte sua che l’integrazione del nord del Kosovo nel resto delle strutture nazionali kosovare verrà attuato senza l’uso della forza, e che Belgrado verrà consultata su ogni tema.

Feith dimentica, però, che il 28 giugno 2008 (anniversario di “Vidovdan”), i serbi del nord del Kosovo hanno proclamato la propria indipendenza dal resto del paese e istituito un proprio parlamento.

Come la “Comunità Internazionale” intenda convincerli a tornare sui loro passi, rimane un mistero, se non appunto ricorrendo ad un’azione militare. E’ molto più probabile, intanto, che si faccia pressione su Belgrado, intenzionata ad entrare nell’Unione Europea, anche su invito di Mosca (interessata ad avere un forte alleato in Europa).

La candidatura della Serbia all’Unione europea è in questi giorni sul tavolo dei Ministri degli Esteri dei Ventisette riuniti a Bruxelles.

Lo hanno confermato fonti comunitarie secondo le quali la presidenza spagnola avrebbe intenzione di avviare le consultazioni tra i partner sui passi da intraprendere a proposito della candidatura di Belgrado.

Alla riunione partecipa anche il Ministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremic, pronto a discutere nuove misure per ampliare la cooperazione tra le due parti e a chiedere ai colleghi dell’Unione Europea di definire la loro posizione al riguardo.

Jeremic, nei colloqui con il Ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos, che rappresenta la presidenza semestrale dell’Ue, ha già ottenuto rassicurazioni dalla Spagna sul no di Madrid all’indipendenza albanese-kosovara dalla Serbia. Sull’altro tema, invece, gli emissari dell’Unione avrebbero chiarito che il piano d’integrazione avanzato da Pristina, che dovrebbe condurre a una maggiore sovranità albanese kosovara su Mitrovica Nord e su altre aree a maggioranza serba, “non corrisponde alla linea dell’Unione europea”.

Jeremic aveva definito il piano “illegittimo” alla vigilia della riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di venerdì scorso.

Le pressioni di Pristina, comunque, non mancano.

Pochi giorni fa, la polizia kosovara ha fermato il Ministro serbo per le questioni del Kosovo, Goran Bogdanovic, mentre era impegnato in un giro politico nella zona di Strpce senza aver tuttavia ottenuto alcuna autorizzazione dalla autorità della provincia autonoma indipendentista della Serbia.

Come hanno riferito fonti della polizia a Pristina, le auto di Bogdanovic e del suo seguito sono state fermate quando il ministro serbo stava lasciando la località di Sevce.

Dopo una breve disputa verbale, Bogdanovic e’ stato scortato verso il passaggio di frontiera serbo-kosovaro di Merdare (nord del Kosovo). Secondo le autorità kosovare, Bogdanovic – che e’ cittadino kosovaro – era entrato in Kosovo tre giorni fa per una visita privata. “Questo e’ un esempio che dimostra come in Kosovo non vi sia libertà di movimento e che ai cittadini serbi del Kosovo, come e’ il mio caso, vengano negati i diritti umani fondamentali come la libertà di movimento”, aveva replicato Bogdanovic.

In ogni caso, la questione del Kosovo non è la sola nel risiko diplomatico internazionale riguardante la Serbia e, sotto certi aspetti, risulta addirittura meno pericolosa della “partita” bosniaca.

La Serbia, quale firmataria degli accordi di Dayton, non adotterà mai alcuna decisione politica che possa mettere in pericolo l’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina.” Lo ha detto il presidente serbo, Boris Tadic, sottolineando che per questo Belgrado e’ decisamente contraria a un eventuale referendum suscettibile di portare alla frammentazione della Bosnia. “Se la Serbia dovesse sostenere un referendum sulla secessione (delle entità territoriali) in Bosnia, perderebbe la
sua credibilità internazionale”, ha proseguito Tadic in un’intervista all’emittente televisiva di Sarajevo Obn.

Il presidente si e’ detto al tempo stesso consapevole dello scarso appoggio che tali sue dichiarazioni potranno ottenere in seno alla maggioranza dei serbi di Bosnia.

A minacciare un referendum sulla secessione é stato a più riprese negli ultimi tempi il premier della Republika Srpska (Rs, l’entità serba, una delle due che costituiscono la Bosnia- Erzegovina insieme alla Federazione croato-musulmana), Milorad Dodik, insoddisfatto della politica e dei provvedimenti del Rappresentante internazionale in Bosnia, Valentin Inzko, che a suo avviso limitano l’autonomia della Rs.

Per Tadic, la Serbia é garante degli accordi di Dayton – che nel 1995 posero fine alla guerra di Bosnia – e al momento non esiste altro documento a garanzia dell’integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina.

Tadic dimentica però di ricordare le innumerevoli interferenze che la “Comunità Internazionale” (cioè Stati Uniti ed Unione Europea) hanno esercitato, dal 1995 ad oggi, sulla politica bosniaca, in particolare la riforma della polizia, che metterebbe fine all’autonomia della Republika Srpska.

Non si può, quindi, cambiare le carte in tavola e parlare di “garanzie”.

Gli accordi di Dayton, pur criticati allora giustamente da Pale per alcune incongruenze (status di Brcko, corridoio della Posavina), furono comunque accettati dai serbi di Bosnia, in quanto garantivano loro una forte sovranità sul 49% del territorio bosniaco.

Le tanto auspicate riforme, volute da Bruxelles e Washington, rischiano di stravolgerne il contenuto, ed è inevitabile che Dodik abbia minacciato il ricorso al referendum, nel caso l’autonomia di Banja Luka venisse mutilata.

Bruxelles, peraltro, sta cercando di assumere un ruolo maggiore in Bosnia, assumendo su di sé la carica di Rappresentante Speciale per il paese.

Se davvero vorrà stabilizzare la situazione, “pacta servanda sunt”.


*Stefano Vernole è redattore della rivista “Eurasia”; è autore dei libri La lotta per il Kosovo e La questione serba e la crisi del Kosovo.


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