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Qualche riflessione sugli “studi strategici”

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Gli autori G. Giacomello e G. Badialetti, del “Manuale di Studi Strategici” (edit. V§P), rispettivamente professore e militare di professione, offrono un quadro didattico per lo più divulgativo, sulle origini del “pensiero strategico” che il senso comune tende a collocarlo come arte o scienza dell’ uso bellico, nel modo più efficace possibile, al fine della vittoria. Una semplice predisposizione di un pensiero strategico a risposte adeguate tra possibili sviluppi alternativi di “violenze organizzate”, al fine di vincere, oppure un’idea di strategia che possa nascere dallo studio della storia (delle guerre), del Generale prussiano W.V.Clausewitz (1780-1831)” che si avvalse del proprio supporto empirico di “ materiale vissuto,” sulla base del quale fu in grado di elaborare le sue Teorie Generali dell’arte “Della Guerra” ?

E da qui, gli autori si dipanano su uno sviluppo di pensiero strategico, attorno all’ asse fondamentale di ricerca del filosofo guerriero Clausewitz; un tipo di ricerca che si inanella in una risoluzione politica impropria, circa il destino dell’Europa a partire dalle fine della Seconda Guerra Mondiale, con gli Usa, unico stato realmente vincitore: “L’Europa è diventata l’unica parte del mondo ad essere riuscita a mettere da parte la guerra come strumento di relazione tra vicini”. Così gli autori suindicati, dopo avere volato alto nel pensiero strategico, vengono assaliti da un improvvido contorcimento culturale che sfocia in un occultamento ideologico della condizione simil-statalista dell’Europa che fa da corollario ad un pacifismo”coatto,” aperto ad ogni multiculturalismo-multietnico-multirazziale, risorto improvvisamente dalle ceneri delle guerre europee, come appendice ad un predominio militare Usa, totale e assoluto sull’Europa, in una sorta di collante politico che tiene surrettiziamente in vita le varie identità nazionali, non ancora pienamente sopite; oltre a rappresentare una condizione ideale dello spirito di uno Stato Sovranazionale e non autonomo, e/o a sovranità sempre più limitata, e perciò adatto ad ogni impresa di “guerra giusta e umanitaria” da svolgere per conto del mandante predominate d’Oltreoceano.

Lo ricerca degli autori campeggia su Clausewitz, rispetto ad ogni altro studio di pensiero strategico, passando per Tucidide( Grecia-424 a.C.) e Sun Tzu (Cina-396 a.C, conosciuto in Usa, negli anni ’70 per la guerra in Vietnam, con qualche utilizzo di quest’ultimo, per strategie commerciali ed ad uso e consumo in Usa per chi si occupa di business management) fino ad arrivare a Machiavelli. Secondo Clausewitz, la guerra viene considerata come un processo storico sottomesso alla politica in quanto impegno cruciale dello Stato, che per prevalere con la forza deve far appello a tutte le risorse materiali e spirituali del proprio popolo. Al contrario dei romani e greci che non sottolinearono alcun il legame tra politica e guerra, perché per tutti i militari, civili, patrizi e plebei la guerra e la politica stava veniva vissuta nella “natura delle cose, ..due facce inscindibili della stessa medaglia: “la tattica come gli ideali marziali e gli istinti bellicosi sono semplicemente subordinati alle necessità della politica. E’ così che Roma garantisce la sua superiorità strategica su così tanti avversari, per un tempo così lungo.” E’ con il diffondersi della religione cristiana e successivamente con la dottrina della Chiesa cattolica che si giunse ad ammettere nelle due forme di guerra possibili, guerra santa e guerra giusta, una colpa attribuibile ad un nemico, con l’uso necessario della forza per ottenere il rispetto di un diritto; e così fino alla fine del 1700, e all’inizio cioè, del c.d. “diritto internazionale dei conflitti armati”. Tale quadro internazionale cambia, dopo la Prima Guerra Mondiale con l’adozione del “patto Istitutivo delle Società delle Nazioni” che limitava, parzialmente, l’uso della forza nei rapporti interstatali. Questo assetto internazionale viene messo in crisi dalla Seconda guerra mondiale, nel dopo 1945, con la Carta Onu (Patto) delle Nazioni Unite che vincolò progressivamente tutti gli stati, indipendentemente dalla loro adesione. In tal modo la Carta, o Patto tra le nazioni, attribuisce il monopolio dell’uso della forza al “Consiglio di Sicurezza,” che può intervenire nel caso in cui vi sia una minaccia alla pace, o sua violazione, o atto di aggressione.

Il congresso di Vienna (1814-15) con la Restaurazione politica al periodo antecedente al 1792 (Rivoluzione Francese) concluse un periodo sanguinoso di guerre napoleoniche, che con le loro idee libertarie avevano messo in crisi le monarchie europee; e con esse anche il sovvertimento di un certo ordinamento sociale fondamento del loro potere assoluto, a partire dalla nuova strategia di Bonaparte, dei suoi caratteri della guerra moderna che seppe imprimere una guerra di popolo, attraverso la “levée en masse di tutti i cittadini francesi chiamati a difendere la loro neo acquisita libertà. Per consentire ad armate, di tali dimensioni di muovere, di operare e combattere al di fuori del suolo patrio si ricorre all’unica possibile alternativa alla bancarotta dello stato, vivere delle risorse disponibili nei territori liberati, ..Quello che muove il popolo, fino ad allora inerme osservatore, vittima o cieco strumento della guerra a diventarne l’attore principale”

E’ proprio quest’idea di popolo in armi, e della sua forza ed energia da convogliare in un’impresa di guerra subordinata alla capacità politica del sovrano in grado di difendere gli interessi dello Stato, quella che più affascina Clausewitz (antagonista alle guerre napoleoniche). Anche se quest’idea del popolo in armi “deve essere mobilitato ed asservito alla causa dello stato-nazione senza divenire vittima delle suggestioni libertarie proprie dell’esperienza francese.

L’idea centrale di Clausewitz è che“La guerra non è nient’altro che la politica dello Stato proseguita con altri mezzi”. Il fenomeno bellico si ascrive perciò in una dimensione sociale, senza con questo definire in modo esaustivo che cosa s’intenda per politica, entrare cioè direttamente nel merito dei suoi contenuti e dei suoi valori: “L’interazione politica è lo scopo, la guerra è il mezzo e mai il mezzo può essere pensato senza scopo” Una definizione, quest’ultima, che richiama la capacità politica del principe condottiero, volta a mantenere in una “proporzione”, lo scopo politico, l’obbiettivo militare e le risorse disponibili.

Rimane, in tutto questo, l’interpretazione fondamentale del fenomeno guerra, come processo indecifrabile se non collegato alla politica: “E’ la politica che ha creato la guerra. Essa è l’intelligenza mentre la guerra è semplicemente lo strumento; ed ancora, la guerra ha una sua grammatica, ma non certamente una sua logica”

Secondo i nostri autori, il modello teorico proposto da Clausewitz è quello di uno sviluppo di “un’analisi della guerra intellettualmente difendibile, e cioè partendo dall’insieme dei fenomeni osservabili e rilevabili dallo studio della storia della logica e dal senso comune e li rende intellegibili attraverso immagini simboliche ed analogiche (guerra come duello ingrandito, collisione di forze vive, ma anche scambio monetario inteso come mezzo per perfezionare un’interazione, un agire tra soggetti diversi – al pari della decisione delle armi nell’interscambio guerresco – o ancora gioco, per il suo collegamento con il calcolo delle probabilità), per progredire poi “dai singoli elementi dell’oggetto….al tutto nel suo nesso interno”.

E da qui si può rilevare il carattere assoluto della teoria che prevale con i suoi principi organizzativi sulla rilevanza dei fenomeni e dei loro collegamenti; una teoria che dovrebbe illuminare a far capire, ma che non svela la sua interezza. L’ideal tipo di stratega che emerge è quello che mette insieme “la forma assoluta, teorica, della guerra, con la sua forma reale, quella che trova applicazione pratica nella storia. La guerra come concetto puro è definita come “un atto di forza che tende a ridurre l’avversario al nostro volere” E su questo aspetto ben si comprende, come dalla guerra assoluta, del totale asservimento dell’avversario, si può rilevare (dall’esperienza storica) un continuo incremento di violenza in grado di superare il livello posto dalla parte avversa, eliminando ogni limite logico alla sua applicazione ed ad ogni scopo praticabile. Ed è su limite invalicabile che intervengono “le libere e plurali volontà delle leadership ed i motivi politici che determinano gli obbiettivi da raggiungere e le risorse da investire, quantificando così la misura dello sforzo bellico ed inibendo di fatto l’escalation.”

Nel passare dal dominio assoluto a quello reale (e/o probabilistico), la guerra manifesta la propria subordinazione alla politica, “e appare come continuazione della politica con l’immischiarsi di altri mezzi”. Ciò significa che la diplomazia e la politica continuano a guerra inoltrata come un’attività parallela, anche se l’essenza della guerra continua ad essere la violenza, mitigata talvolta per non raggiungere la sua fase ultima, più distruttiva: “la guerra può essere una cosa che talvolta è più e talvolta è meno guerra. La teoria deve ammettere questo, ma è suo dovere porre in alto la forma assoluta ed usarla come punto di riferimento generale”.

Un paradigma quest’ultimo di Clauswitz su cui si è potuto intessere e costruire una fenomenologia della guerra, la cui decisione (della sua applicazione) è in rapporto alla condotta della guerra, come scelta squisitamente politica: “non si inizia nessuna guerra senza sapere che cosa con essa e che cosa in essa si voglia raggiungere”.

La trinità clausewitziana, stato, esercito, popolo è un utile strumento con il quale analizzare lo scopo, che si intende raggiungere in una guerra moderna comprensiva di forze internazionali, indipendentemente da una loro legittimità giuridica. Del resto la descrizione della guerra non appartiene né al dominio dell’arte né alla scienza ma allo scambio sociale tra le “parti” in conflitto, come risulta a tutt’oggi nelle forze internazionali impegnate nelle operazioni di “peacekeeping”, il cui scopo ultimo è di avere la capacità di influenzare la popolazione.

Dopo il pacifismo postbellico imposto in Europa, ove si era affermato un primato della pace, entro comunque un mondo bipolare, in un equilibrio del terrore atomico, sembrerebbe secondo i nostri autori, che la nuova fase storica post-Guerra-Fredda, sia proprio l’inizio d’epoca del peacekeeping, con la possibilità di impiegare strumenti militari in un ambito limitato; una sorta di versione aggiornata di politica neoclausewitziana, aperta ad ogni avvio di multipolarismo, dove troveranno posto guerre regionali tra paesi dominanti, nella loro inenarrabile pantomina di una comune cooperazione tra i popoli.


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